lunedì 23 marzo 2009

LO SCIOGLIMENTO DI ALLEANZA NAZIONALE


Il Big Bang che ridisegna la destra di Luca Telese
(Il Giornale)
E alla fine, se non è una beffa poco ci manca, perché Gianfranco Fini celebra il congresso dell’abbandono definitivo alla «casa del padre» con un omaggio al padre, celebra l’addio ad An e alla tradizione post missina con un discorso che Giorgio Almirante avrebbe definito, da appassionato di Dante, «ghibellino». La prima cosa che ti colpisce, nel congresso della Fiera di Roma, è che An non entra dentro il Popolo della libertà con la forza di una centuria inquadrata a testuggine, ma piuttosto con un nuovo Big Bang che scompone il partito secondo nuove coordinate, e in nome di un asse in cui si misura minore o maggiore laicità. La scelta, ancora una volta, l’ha fatta Fini che, nel discorso di ieri, ha dato due grossi messaggi. Il primo una sorta di tana libera tutti, adesso ognun per sé, nessuna appartenenza garantita, nessuna politica «di potere o di sotto potere»; il secondo: nessun retaggio cameratesco, «non siamo più i migliori».E dunque, ieri, nella stessa mattinata, ascoltando Fini e i suoi colonnelli, sembrava di udire lingue diverse. Molto «guelfo» Maurizio Gasparri, con il suo binomio inscindibile «legge & ordine» agitato davanti alla sala con passione e convinzione; neo guelfo Gianni Alemanno, con le sue sottolineature «identitarie» e la sua vicinanza dichiarata ai valori della Chiesa; pienamente ghibellino, appunto, Fini, che disegna, in quello che dal punto di vista qualitativo sembra uno dei suoi discorsi più belli, un ritratto esistenziale del tutto anomalo, rispetto ai profili tradizionali della destra. E poi, a complicare le cose con una nota di colore, tutte le citazioni, le identità si impastano, in alcuni casi si scambiano. Il primo cittadino di Roma ha una moglie - Isabella Rauti - molto ghibellina («Sono qui come delegata prima che come moglie, al mio primo e ultimo congresso, ho votato»), mentre Fini ha una compagna, Elisabetta Tulliani, bionda, incantevole, che fugge inseguita dai giornalisti senza rilasciare commenti: davanti c’è la segretaria di Fini a mo’ di badante, dietro c’è un uomo della scorta, lei tiene la bocca sigillata, e solo tramite agenzia farà avere un commento pro forma: «Gianfranco è stato bravissimo». L’uomo della scorta, alquanto arcigno, sibilava ai cronisti: «Non si possono farle domande».Ma, a parte questo, il corto circuito inizia quando la scomposizione culturale in nuove appartenenze rispetto al principio della laicità, inizia a squadernarsi. Gasparri, per esempio, agita la biografia di Giuseppe Prezzolini, scritta dall’estensore delle tesi Gennaro Sangiuliano, e lo fa estrapolando una bella citazione che gli serve per motivare il suo anti progressismo: «I progressisti sono gli uomini di domani, i conservatori quelli di dopodomani». Fini, invece, si esalta dichiarando la sua identità «repubblicana», il suo rifiuto del culto del capo, il profilo modernista che prospetta la nuova destra, «dobbiamo essere quelli della speranza, e non quelli della paura», «dobbiamo costruire un’etica repubblicana dei doveri», «dobbiamo costruire un’identità multiculturale e multireligiosa». Alla sua «sinistra», si ritrova un amico come Roberto Menia, il triestino che ha fatto venire giù la sala esaltando l’identità missina, in antitesi all’unanimismo del partito unico. Menia sognava la «federazione», e accetta la fusione come un male minore. Ma altri finiani, come Giorgia Meloni, che pure esaltano l’identità, poi sui temi dell’etica si differenziano dal loro leader. Fini mette sopra ogni cosa la difesa della libertà «che deve essere garantita dallo Stato», la Meloni la difesa della vita, incarnata «da quella ragazza con la pancia un po’ grande che non entra più nel banco di scuola, ma che sceglie di partorire lo stesso». Ignazio La Russa, poi, per storia personale, è stato un «ghibellino almirantiano» ma per pratica politica, è uno dei padri del partito unico; il già citato Sangiuliano, che ha scritto le tesi, si dice «un ghibellino convinto», così come l’altro intellettuale di peso di An, Alessandro Campi. Al contrario, Alemanno immagina un altro partito, che sia meglio del Movimento sociale, che fondi una nuova identità riformista e identitaria. Alemanno vorrebbe sposare i valori della Chiesa e la critica al capitalismo reale. Anche Fini, per paradosso, raccoglie la bandiera della critica al mercatismo, ma si differenzia da tutti gli altri per la sua posizione sul tema dell’immigrazione: prefigura un’Italia in cui «saranno molti gli italiani che non sono figli di italiani» e in cui bisogna costruire «un nuovo rapporto con l’islam» sfidando su questo terreno «la sinistra, che non ha un’idea nuova di società».

Ovviamente, la politica delle grandi idee è anche la sovrastruttura della politica delle cose umane. Il retroscena che i dirigenti di An conoscono, è una riunione di qualche giorno fa, in cui il presidente della Camera aveva pensato a un ingresso più organico degli ex aennini nel nuovo partito. Poi ha scoperto, con non poco fastidio, che molti dei colonnelli già stavano trattando in proprio posizioni, in alcuni casi anche organigrammi, con Silvio Berlusconi. Forse è stato proprio questo a spingerlo all’ultimo strappo, al tana libera tutti, a quell’ambizioso rompete le righe: il nuovo Pdl, dopo il suo discorso alla Fiera di Roma, nasce con un monarca e con un leader repubblicano che lo sfida, alla distanza.C’era una frasetta, ieri, anche nell’elogio che Fini ha fatto di Berlusconi, che era rivelatrice. Spiegava che Berlusconi aveva vinto per la sua capacità di rispondere ai bisogni, «ma anche alle paure». Poi, nella seconda parte del suo discorso, spiegava che la nuova destra che immagina deve rispondere non alle paure, ma alle speranze. Quelle che lui, da ieri, si candida a incarnare, cercando nel nuovo partito, trasversalmente, alleati laici disposti a competere l’egemonia con il Pontefice massimo di Arcore.


La nuova partita aperta dal leader di Massimo Franco (Corriere )
Non c'è soltanto assenza di nostalgia per la fine di An: le parole di Gianfranco Fini ieri trasudavano l'impazienza di voltare pagina, di lasciarsi alle spalle una vita e di cominciarne un'altra. Il capo della destra si è proposto non come concorrente di Silvio Berlusconi alla guida del Pdl, ma come leader di un futuro «partito della Nazione»: più trasversale del Cavaliere; laico; tollerante con gli immigrati; e attento al ruolo del Parlamento per bilanciare il presidenzialismo.
La sensazione è che nell'ottica del presidente della Camera il passato sia archiviato da tempo; ed il presente vada filtrato con un binocolo che guarda l'Italia di qui a dieci anni. È un'ottica che relativizza l'esistente: il Pdl, l'era berlusconiana, le vecchie identità. Il passo d'addio è una miscela di orgoglio e solitudine. Se pure Fini non ha detto esplicitamente ai suoi: «Da oggi, ognuno per sé», il suo lascito ad An è proprio in questi termini. Il ponte simbolico scelto per l'ultimo congresso non traghetta nel continente del Cavaliere un partito, ma una folla di singoli che dovranno guadagnarsi il proprio spazio vitale. Si tratta di una condizione politica scomoda, per una forza abituata a percepirsi in termini di diversità; e tuttavia è l'unica che Fini ritenga possibile e, forse, in grado di favorire le sue ambizioni.
In fondo, da quando guida l'assemblea di Montecitorio, lui stesso è diventato un solitario per antonomasia: in primo luogo nella propria maggioranza. Dandosi un profilo istituzionale autonomo, per il quale è stato accusato di ingratitudine, negli ultimi dodici mesi ha costruito una legittimazione ed una rete di alleanze esterne al centrodestra; più orientate verso il Quirinale che verso Palazzo Chigi; e più attente alle prerogative del Parlamento che alle esigenze del governo. Adesso che entra nel Pdl le rivendica e quasi le accentua. Si presenta non come un alleato che deve gratitudine a Berlusconi, ma come un aspirante leader pronto ad accettarne la guida; temporaneamente, però, e ad alcune condizioni. Il suo rifiuto orgoglioso del termine «sdoganamento» è un no alla lettura di An come un movimento postfascista che il Cavaliere ha tolto dal ghetto della storia. E le critiche al culto della personalità e al pensiero unico sono avvertimenti indirizzati, di nuovo, all'azionista di maggioranza del Pdl. Insomma, Fini ha l'aria di chi entra nel nuovo partito protetto dall'armatura del ruolo parlamentare; ed è deciso a non farsi accecare e bruciare dalla stella del berlusconismo.
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Ma è difficile capire se la scelta prelude alla sua emancipazione ed ascesa politica; o se il presidente della Camera fa solo di necessità virtù: nel senso che ha assecondato la fusione fra An e FI perché non aveva alternativa. La sensazione è che la destra non sia più «sua» da tempo; e lui non sia più la destra: o almeno, non la controlla e non la rispecchia come prima. Si è visto in occasione del contrasto fra Palazzo Chigi e Quirinale sulla bioetica, poche settimane fa. Con il presidente della Camera che dava ragione al capo dello Stato, Giorgio Napolitano; e Berlusconi che invece lo criticava e faceva appello al proprio governo, ottenendo un'unanimità garantita anche dai ministri di An. Il suo distacco dal partito d'origine, insomma, è stato se non preceduto, accompagnato da quello di An da lui. Dire di no all'idea di guidare la «corrente di destra» del Pdl significa prendere atto della realtà, più che determinarla. Da oggi la figura di Berlusconi, esorcizzata nei due giorni del congresso, si materializzerà con il suo sorridente, inesorabile abbraccio. E renderà evidente che An aveva attraversato e bruciato il ponte alle proprie spalle ben prima di ieri. Non avere paura, come invita a fare Fini, significa trarne tutte le conseguenze senza guardare indietro

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